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PASSAGGIO IN INDIA
(A PASSAGE TO INDIA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 febbraio 1991
 
di David Lean, con Judy Davis, Alec Guinness, Victor Banerjee, Peggy Ashcroft, James Fox (Gran Bretagna, 1985)
 
Autore settantasettenne di capolavori presunti (Breve incontro), filmoni sottovalutati (Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d'Arabia) e filmoni tout court (Il dottor Zivago), David Lean non ha mai messo d'accordo nessuno.

Ispirato cineasta o tecnico accademico: nemmeno Passaggio in India risolverà il vecchio litigio. Per un fatto molto semplice, che il film è fatto delle due cose messe assieme. Contraddittorio, ambiguo: esattamente come il soggetto che dipinge. Quell'avventura coloniale britannica fatta di volgari tornaconti ma anche di entusiasmi umanistici. D'impareggiabili ottuserie xenofobe; e di aspirazioni ad un dialogo che avrà affascinato mezzo secolo d'Occidente. David Lean ed il suo film avranno molti difetti: ma sono gli ultimi a parlarci di un modo di vivere, e di un modo di far cinema. Il fascino di Passaggio in India nasce innanzitutto dalla constatazione di assistere al tramonto, glorioso, di un modo d'ispirarsi alla tradizione letteraria, agli schemi del grande romanzo per avvicinarsi alle masse. E del segreto per rendere tutto ciò autentico, quello di saper raccontare una storia. Da quegli schemi, da quel termine "romanzato" solitamente negativo nascono i limiti del film: i vizi, i procedimenti narrativi che portano alla macchinosità dell'ultima parte, ad un personaggio "letterario" come quello di Alec Guinness. Ma da quegli stessi schemi, proprio perché probabilmente David Lean sa essere grande cineasta e non solo abile orchestratore di spettacoli, nascono le cose più sottili, più affascinanti del film.

I personaggi, elementi catalizzatori nella più pura tradizione letteraria, riflettono i significati del racconto. Prima fra tutti, ironica, distante, poi coinvolta, travolta fino a perdere il proprio ruolo prospettico per lo spettatore (ed il film la sua lucidità), la mobilissima protagonista. Judy Davis, esordiente mozzafiato che Lean ha scoperto in Australia. Poi la grande Peggy Ashford. O l'impeccabile James Fox. Lean porta tutti questi straordinari personaggi ad un itinerario spirituale, proprio come accade nel romanzo psicologico. Ad un viaggio nella propria coscienza, che è il solo a poter condurre a sfiorare, se non a comprendere, il mistero indiano. O almeno quello di una diversità.

Questa parabola spirituale Lean la compie nell'unico modo possibile ad un cineasta: intervenendo sull'ambiente, sullo sguardo che autore, personaggio, e quindi spettatore pongono sullo sfondo. Passaggio in India è filmato, all'inizio, quasi turisticamente: quei sari colorati, quei mercati vocianti quei tramonti infuocati sono gli stessi che osservano i protagonisti, nuovi venuti. Ma con l'evolvere della situazione, con la presa di coscienza di quei medesimi personaggi cambia anche il modo di osservare l'India. Da concreta diventa astratta. Da materiale si fa spirituale. Da esteriore, superficiale, si fa interiore.

Quando nelle sequenze delle grotte di Malabar, una zona d'ombra una soglia col facile da varcare eppure col impossibile da superare divide la pallida inglese dal bruno indiano, il cinema di questo quasi ottantenne raggiunge quell'istante sublimatore, quella sintesi espressiva che è propria del cinema moderno. La prepotenza materiale, l'evidenza fisica del mondo descritto riesce a tradursi, grazie all'intuizione artistica, in un conflitto ancor più vasto. Poiché morale, e universale.


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